Strage di Castelvolturno, un dolore vivo

Ricordo tutto di quei giorni di quattordici anni fa. Ricordo il dolore e la rabbia di un’intera comunità, quella degli immigrati della Soweto italiana di Castelvolturno.
Erano in sei, tutti giovanissimi; venivano dal Ghana, dal Togo e dalla Liberia. Nessuno era legato alla camorra o alla cosiddetta mafia nigeriana. Innocenti.
E morirono tutti quella sera del 18 settembre a Ischitella, nella tristemente nota come strage di Castel Volturno. Travolti da almeno 125 proiettili usciti da pistole mitragliatrici e kalashnikov. Massacrati.
Non fu uno scambio di persona; non fu un tragico errore.
La paranza del boss dei casalesi Giuseppe Setola, con lui in testa, non mirava delle persone specifiche.
Bastava fossero di colore nero. Volevano mandare un preciso messaggio alla comunità africana: che lì lo Stato erano loro.
Non ho mai creduto come invece una pigra informazione credette all’ipotesi di una guerra della camorra contro spacciatori africani.
Mi bastò fare il cronista, fare domande, vivere le ore successive alla strage con loro.
Ed ebbi ragione.
I killer li hanno arrestati tutti, grazie anche alla preziosa testimonianza del ghanese Joseph Ajimbora che si finse morto ma trovò il tempo di guardarle, quelle bestie. Li riconobbe tutti e li inchiodò alla giustizia.
Quella giustizia che condannerà all’ergastolo gli autori riconoscendogli l’aggravante dell’odio razziale, caso che non conosce precedenti nella storia dei processi di camorra.
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